La quarta dimensione – Parte I

Inizio una nuova serie di pubblicazioni brevi per questo blog tornando sull’argomento architetture (im)possibili. Questa volta però non parleremo di città, bensì di quelle dimensioni che non possiamo percepire nell’esperienza quotidiana, ma in cui siamo ugualmente immersi.

Ho scelto nuovamente tre personaggi molto rappresentativi che hanno consegnato la loro fama e le loro idee alla letteratura, e forse qualcuno di loro grazie a quelle parole vivrà ancora per molti e molti anni nella memoria dei lettori. Sto parlando di Robert Heinlein, Charles H. Hinton e Edwin A. Abbott. È di nuovo un trittico dunque, e la fantascienza è di nuovo presente, a rimarcare ancora una volta il suo ruolo vitale nello stimolare il pensiero, con un occhio ben piantato sulla realtà.

I tre scrittori hanno dedicato almeno una parte della loro opera alle dimensioni, ovvero la misura dello spazio e del tempo secondo criteri matematici. In particolare Charlen Hinton è in qualche modo ricordato come il profeta della quarta dimensione, avendoci dedicato lunghi studi e alcuni racconti matematici tra gli anni ’80 del XIX secolo e i primi del XX, anzi si può dire che quasi tutta la sua opera è dedicata a questa ricerca. Da non dimenticare che egli inventò il termine tesseract per indicare la rappresentazione geometrica di un ipercubo,una forma geometrica costituita da 24 facce quadrate bidimensionali e 8 facce tridimensionali cubiche. Una forma molto conosciuta e usata nella fantascienza letteraria e cinematografica più moderna. Edwin Abbott, contemporaneo di Hinton, scrisse un romanzo breve chiamato Flatland – A romance of many dimensions. Pubblicato nel 1884, il romanzo narra l’avventura di un uomo proveniente da un ipotetico universo a due dimensioni che viene a contatto con un abitante di un universo a tre dimensioni. L’opera si può leggere sotto tanti punti di vista, quello politico, filosofico e ovviamente scientifico, ma ne parleremo più avanti. Importante è invece che Hinton lo lesse e ci ragionò sul piano concreto.

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Questa prima puntata però è dedicata a uno dei più importanti scrittori di fantascienza del secolo scorso, Robert Heinlein, autore di opere fondamentali per il genere come “Straniero in terra straniera” (Stranger in a Strange Land, 1961), “Fanteria dello spazio” (Starship Troopers, 1959), “Il terrore dalla sesta luna” (The Puppet Masters, 1951) e “Universo” (Universe, 1941). Non è della sua opera generale che parlerò, ma di un singolo racconto, intitolato “La casa nuova” (And He Built a Crooked House, 1941), presente in due bellissime antologie italiane, la prima dal titolo “Racconti matematici”, curata da Claudio Bartocci per la Einaudi (2006), la seconda è un vero caposaldo, si tratta de “Le meraviglie del possibile”, pubblicata per la prima volta da Einaudi nel 1959, ridotta in tascabile nel 1973, e ristampata integralmente del 1992, sempre per gli stessi curatori, Sergio Solmi e Carlo Fruttero. Arricchita da una preziosa prefazione dello stesso Solmi e di una nota di Fruttero, la raccolta è d’obbligo per tutti gli amanti della fantascienza o per chi volesse avere un primo assaggio di questo genere. All’interno infatti si trova il meglio del meglio, gli autori presenti sono Asimov, Bradbury, Van Vogt, Simak, Brown, Matheson, Wells, Robinson, Tenn, Dick, Miller Jr., Miller, Piper, Heinlein, Sheckley, Keyes, Clarke e lo stesso Fruttero. Manca solo Frederik Pohl  effettivamente, di cui si sarebbe potuto aggiungere per esempio “Il tunnel sotto il mondo” (The Tunnel Under the World, 1955), nonostante si tratti di un racconto molto più lungo rispetto agli altri presenti. Tralasciando questa sottigliezza, il lavoro di Solmi e Fruttero resta, come già detto, preziosissimo e fondamentale anche dal punto di vista della conservazione dei testi, non sempre facilmente reperibili.

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“La casa nuova” è, probabilmente, uno dei lavori più ironici di Heinlein, e infatti la forma del racconto ,come nella letteratura dell’orrore e del terrore (uso entrambi i sostantivi perché a mio parere indicano due tipi di narrazione diversi per contenuti e stile), si presta molto a un certo tipo di fantascienza. Gli autori che vissero e lavorarono tra gli anni ’30 e gli anni ’60 circa pubblicavano molto sulle riviste dedicate al genere. I racconti erano spesso pubblicati a puntate e bisognava scrivere in fretta, condensare un’idea, renderla appassionante per i lettori che non sempre cercavano un approfondimento. A volte il racconto dava la possibilità di concentrarsi su un’idea sola ma brillante (basti vedere tutti i racconti di Frederick Brown) in modo che non si perdesse l’attenzione su ciò che era importante. D’altronde la fantascienza funziona così, si dà per scontato un presupposto che si basa su fattori scientifici ma senza che essi siano necessariamente approfonditi. Asimov, da scienziato qual era, spiegava anche nel dettaglio, e così faceva Clarke, ma non si perdeva mai di vista la narrazione, l’idea di fare letteratura era ben presente a questi autori. Il racconto permetteva di non perdersi in spiegazioni troppo lunghe e in visioni troppo larghe che avrebbero tolto quell’atmosfera di sogno, di mistero, di scoperta, che è propria della fantascienza. Cos’è, per esempio, che ci spinge alla ricerca di una meta? Il fatto che non possediamo una visione del tutto, la voglia tutta umana di andare sempre un po’ più là, di gettare lo sguardo nell’abisso, di avanzare nello sconfinato. Il racconto di fantascienza è uno stimolo per tutto questo.

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“Io non penso a una casa come a una caverna imbottita e tappezzata; concepisco la casa come una macchina d’abitazione, un processo vitale, una cosa viva, dinamica, che cambia secondo l’umore di chi vi abita […]. Ma perché dobbiamo lasciarci inceppare dalle concezioni congelate dei nostri avi? […]. La geometria statica di Euclide è forse la sola matematica? Dobbiamo gettare completamente alle ortiche la teoria Picard-Vessiot? E dei sistemi modulari, che ne facciamo? […] Possibile che non ci sia posto in architettura per la trasformazione, la omomorfologia, le strutture azionali?

– Che mi venga un colpo se lo so, – rispose Bailey. – Per me, è lo stesso che parlarmi della quarta dimensione.

– E perché no? Perché dovremmo limitarci alla… Un momento! – S’interruppe per fissare il vuoto con aria assorta. – Homer, credo che tu abbia colpito nel segno. In fin dei conti, perché no? Pensa alla infinita ricchezza di articolazioni e rapporti esistente nelle quattro dimensioni. Che casa, che casa… – Rimase in silenzio, immobile, mentre i suoi pallidi occhi sporgenti ammiccavano meditabondi.

Bailey gli scosse il braccio.

– Svegliati, Teal. Di che accidente stai parlando, delle quattro dimensioni? La quarta dimensione è il tempo; non puoi piantar chiodi nel tempo.

Teal rispose con un’alzata di spalle.

– D’accordo, d’accordo. Il tempo è una quarta dimensione, ma io sto pensando a una quarta dimensione spaziale, come lunghezza, larghezza e spessore. Come economia di materiali e comodità di strutture non potresti trovare di meglio. Per non dire nulla del risparmio di terreno da costruzione: potresti costruire una casa di otto vani sul terreno normalmente occupato da una casa d’un solo vano. Come un tesseract

– Che cos’è un tesseract?

– Non sei mai andato a scuola in vita tua? Un tesseract è un ipercubo, una figura quadrata a quattro dimensioni, così come un cubo lo è a tre e un quadrato a due.

[…]”

(Estratto da “La casa nuova”)

La storia narra quindi di un architetto insoddisfatto delle geometrie a disposizione per costruire abitazioni che decide di costruire per una coppia di amici una casa del tutto fuori dal normale. La costruirà infatti come un ipercubo sviluppato nelle sue otto dimensioni “esterne” (quattro di queste sono disposte una sull’altra in altezza e le altre quattro collocate come balconi al “primo piano”), quando i due coniugi andranno a vedere la casa davanti ai loro occhi apparirà solo un cubo. Durante la notte, infatti, un terremoto ha colpito la struttura che è “rientrata” in se stessa, inglobando le sue dimensioni e aprendo spazi infiniti che coesistono contemporaneamente all’interno del cubo. I tre entreranno dentro e dovranno cercare di uscirne, lo spazio infatti muta di continuo e si apre verso la quarta dimensione. Tra le tante esperienze che affronteranno ci sarà anche quella di inseguire se stessi.

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Il racconto come avrete capito è semplicemente geniale, in poche pagine Heinlein riesce a condensare una quantità spaventosa di visioni inspiegabili, tramite espedienti narrativi coinvolgenti lo scrittore prova a immaginare cosa succederebbe se i sensi di un essere umano entrassero in contatto con forme e dimensioni con cui l’esperienza umana non può avere a che fare, cose di cui non possiamo avere percezione.

Essendo un politopo, il tesseract può essere ruotato nello spazio quadri-dimensionale 1b3ca909fb7d0b0de911523512824078 in cui giace muovendosi nello spazio e/o nel piano. Ovvero potrebbe passare dalla forma bidimensionale a quella quadrimensionale (contenuta in quella bidimensionale) e viceversa ruotando. Da qui parte l’intuizione di Heinlein. Coerentemente coi giusti presupposti geometrici, i protagonisti tridimensionali vedono ogni area della casa come infinita e ciclica: le stanze che compongono la struttura appaiono ripetersi senza fine, collocate e connesse in un assetto incomprensibile secondo l’aspettativa razionale basata su tre dimensioni. Se potessimo vivere davvero un’esperienza simile e ammettendo che i nostri organi sensoriali fossero in grado di cogliere tali aspetti, affacciandoci alle finestre da una dimensione superiore coglieremmo con lo sguardo una porzione spaziale del mondo esterno molto più ampia di quella comunemente osservabile, riuscendo a scorgerne anche i lati che normalmente restano nascosti nella prospettica naturale e consueta per noi umani “abituati” alle tre dimensioni, le uniche di cui possiamo avere esperienza diretta. Ed è proprio tutto questo quello che succede ai tre protagonisti.

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Alla fine l’ipercubo è un postulato teorico della fisica quantistica, ovvero la fisica che studia quei fenomeni che muovono la materia, ciò di cui non possiamo avere esperienza e che non è governato dalla fisica newtoniana. Il prefisso iper indica la possibilità di rappresentare forme oltre le tre dimensioni, il termine tesseract è invece applicabile solo alla forma quadrimensionale. La quarta dimensione è riconducibile anch’essa alla fisica quantistica, partendo dall’ipotesi secondo la quale questa dimensione è lo spazio-tempo, bisogna chiedersi:

  • cosa un mondo quadridimensionale può avere in comune con un mondo tridimensionale (ovvero andrebbe scritto un nuovo capitolo di Flatland…)
  • cosa da un mondo tridimensionale si può dedurre che si possa incontrare in un mondo quadridimensionale (e qui ci ha pensato Heinlein…)
  • cosa comporterebbe un passaggio dall’uno all’altro dei mondi (vedi sempre Heinlein) [adattato da Wikipedia]

Come si può vedere, e qui torniamo a quanto detto inizialmente, la fantascienza ci ha già pensato, ci è già arrivata, o perlomeno ha provato a fornire uno spunto solido, una risposta alle nostre domande, un punto di arrivo e, simultaneamente, di partenza per il nostro percorso, divertente si, ma mai scelto a caso.

Una curiosità: Heinlein, nelle sue giornate di 72 ore, cercò davvero di costruire una casa del futuro, anche se non in quattro dimensioni, qui l’articolo.

A proposito, il racconto di Heinlein è presente in questi giorni nelle edicole nella collezione Urania. Oltre al già citato “La casa nuova”, nel volume sono presenti altri racconti dell’autore che appartengono alla sua produzione meno fantascientifica e più “orrorifica”, un’incursione non consueta per Heinlein e un motivo in più per leggerli.

Il futuro del cinema. Tuteliamo l’eccezione culturale

Una questione su cui si dibatte molto, ma mai abbastanza, ultimamente è il futuro del cinema, quanto cambierà nei prossimi anni? Quanto sarà diverso da come lo conosciamo oggi?

Qualche segnale già si è visto e possiamo fare dei pronostici, alcuni dei quali sono molto cupi, ma non è detto che finisca nel modo peggiore possibile.

Dicevo se ne parla molto, è vero, ma spesso queste conversazioni avvengono tra chi il cinema lo ama, molto raramente avvengono tra chi il cinema lo fa e soprattutto lo condiziona con le proprie scelte. Spesso queste persone, e i giganti della comunicazione, rimangono fermi aspettando che si plachi la tempesta che si è abbattuta sulla loro sicurezza di poter fare guadagni facili senza troppa fatica. Già, ma poi quando si esce dal proprio rifugio quanto di quello che era esposto si ritroverà?

Appunto, internet ha dato uno scossone molto forte al cinema, sia in negativo che in positivo. Purtroppo gli Studios non hanno saputo aggiornarsi per nessuno dei due aspetti, finendo per dover reagire nel modo più scomposto possibile. Internet poteva essere una risorsa enorme per il cinema, e invece si è lasciato che avesse la meglio la pirateria incontrollata, finendo col risultato che il cinema è sempre più in mano ai blockbuster che cercano un incasso sicuro. Internet è potenzialmente un mercato distributivo senza limiti, penso soprattutto a quelle migliaia di film indipendenti che una volta prodotti e girati finiscono nell’abisso dei senza distribuzione.

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In queste ore, peraltro, la Commissione Europea potrebbe decidere di togliere la cosiddetta eccezione culturale, ovvero la difesa del cinema europeo migliore da parte degli attacchi di Hollywood, ricordiamo infatti che difendere il proprio cinema è come difendere la propria industria, e quindi parte dell’economia di un paese, per questo ci vogliono leggi e un impegno vero dei governi. Non è possibile lasciare una discussione così importante sul futuro di una forma artistica basilare per l’identità europea e su quello dei tantissimi lavoratori del settore a incontri sporadici, a frasi di circostanza, a impegni mai veramente presi, a discussioni formali durante le premiazioni. Ci vuole un impegno concreto, con le decisioni messe nero su bianco. Il cinema non è il capriccio di poche persone che non hanno contatti con la realtà, il cinema è una realtà. L’Europa, già a  pezzi così com’è, non dovrebbe piegarsi alle pressioni americane sul libero scambio, non dovremmo lasciare che il nostro mercato venga monopolizzato, se l’Europa esiste anche come comunità di tante culture e persone che faccia qualcosa per proteggersi. Parlarne dopo sarà troppo tardi.

Per tutelare l’eccezione culturale e saperne di più è possibile firmare questa PETIZIONE.

A questo proposito, è significativo che una riflessione sul tema sia stata fatta l’altro ieri da due grandissimi cineasti americani, Steven Spielberg e George Lucas, che insieme a Don Mattrick della Microsoft  hanno partecipato in occasione dell’apertura dell’edificio Interactive Media a un incontro alla USC School of Cinematic Arts, dedicato al futuro dell’intrattenimento.

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La loro visione è assai cupa: “[Gli Studios] puntano al denaro. Ma questo non funzionerà per sempre. E come risultato il loro punto di vista sta diventando sempre più stretto. La gente sta cominciando a stancarsi. Non hanno intenzione di saper fare nient’altro”, ha spiegato Lucas.

Spielberg ha posto l’attenzione sul fatto che al momento diverse forme di intrattenimento stanno competendo tra di loro, e che gli Studios preferiscono spendere 250 milioni di dollari per un singolo film, piuttosto che dividerli per tanti film nuovi, anche sperimentali.

Alla fine ci sarà un grande tracollo. Ci sarà un’implosione in cui tre, quattro o forse anche una mezza dozzina, di questi film con mega-budget, andranno a schiantarsi al suolo e questo porterà a un nuovo cambiamento del paradigma.

Due registi che sono due istituzioni del cinema americano, e anche di Hollywood certo, ma sono anche due persone estremamente libere e con un pensiero ben preciso su ciò che è il cinema. Negli anni ’70 furono proprio loro, insieme a Coppola, Scorsese, De Palma e tanti altri a rinnovare Hollywood.

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Sono registi che amano il cinema europeo e si sono spesso schierati in difesa di questo, ma non solo, furono Coppola e Lucas a salvare dal disastro Akira Kurosawa e a produrgli “Kagemusha”, giusto per fare un esempio.

Insomma le parole pronunciate da Spielberg e Lucas sulla situazione odierna del cinema non sono affatto scontate né convenzionali, anzi.

Continua Lucas: “ci saranno meno cinema, ma saranno molto più grandi. L’andare al cinema diventerà un’esperienza costosa, e i biglietti costeranno quanto quelli per uno spettacolo a Broadway o per una partita di football, tanto che i prezzi si aggireranno sui 50, 100, 150 dollari al biglietto. Il cinema commerciale sarà composto da film ad alto budget che rimarranno nei cinema per un anno, come gli show teatrali. Tutto il resto verrà prodotto per il piccolo schermo, è già quasi così adesso. Lincoln e Red Tails sono arrivati a malapena nei cinema. Stiamo parlando di Steven Spielberg e George Lucas che non riescono ad avere i loro film nei cinema.

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Secondo i due registi il cinema più personale non morirà ma migrerà sui servizi di video on-demand, ma questo potrebbe portare alla morte del grande schermo, e con essa la fine di un’era in cui il cinema è stato soprattutto condivisione, emozione collettiva. Si dovrà ripensare il cinema dalle sue basi allora, perché questo va al di là della semplice discussione tecnica. Sempre di più i film indipendenti vengono finanziati in parte o totalmente con il found-rasing, come dimostrano molti festival, tra cui il Sundance, il festival più attento alla realtà indipendente.

Sicuramente è cambiato il modo di agire degli Studios, il cambio di rotta è sotto gli occhi di tutti, ma non è affatto un cambio positivo, anzi è molto più repressivo. Questo è dovuto anche al fatto che le grosse compagnie produttive e distributive badano principalmente a investimenti sul breve termine, e non investono su un cambio del mezzo cinematografico che sia graduale e controllato. Che le cose cambino è naturale, questo è fuori discussione, il come debbano cambiare, e a favore di chi, invece è tutta un’altra storia.

Ovviamente questo non significa che film buoni non esistano o non vengano distribuiti, abbiamo appena assistito a due annate ottime per il cinema, è piuttosto una questione su cosa sarà il cinema domani e su chi deciderà come dovrà essere.

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Quanto è fattibile dunque la previsione di Spielberg e Lucas? Alcune cose possono sembrare troppo pessimistiche, è vero, ma a parlare non sono due sconosciuti. Sono persone che in quel sistema ci vivono, e lo guardano dai piani alti. La loro preoccupazione quindi è da prendere molto sul serio. Un altro dato oggettivo è che i siti per lo streaming, molti dei quali illegali, si stanno diffondendo sempre di più, inoltre molti progetti sono esclusivamente pensati per questo tipo di supporti. I film oggi escono su più supporti e un dato di fatto purtroppo è che il supporto materiale (dvd, blue-ray) sparirà, lasciando solamente, per ora, una indefinita modalità di recupero e conservazione dei film su internet. Insomma, un cambiamento radicale è in corso, siamo in una fase di passaggio molto importante e delicata del nostro vivere (non solo del cinema quindi) e sarebbe opportuno cercare di programmarla. Non è facile prevedere come si evolverà l’industria, ma quello che è certo è che la mancanza di una progettazione realistica e ragionata per il futuro non è la strada migliore.

Città immaginarie – Parte terza

Questa volta parliamo di “Arcologia”, un neologismo che unisce architettura ed ecologia.

Un termine inventato dall’architetto italiano Paolo Soleri, scomparso ad aprile di quest’anno e meritevole di essere (ri)scoperto e studiato.

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Arriviamo così alla fine del trittico dedicato alle città immaginarie, nuove comunità di persone tra lo spazio e la terra, progettate da menti che avevano visto nel loro tempo quella possibilità che era stata negata per molti secoli ad altri pensatori come loro, parlo della possibilità di un avanzamento molto rapido, da vedere realizzato anche nell’arco di una vita, nell’evoluzione verso una nuova società, che si voleva pacifica e benestante, lontana dalla possibilità di guerre mondiali, inquinamento e scontri tra culture differenti.

Non è un caso se le tre persone che sono state scelte in questo breve viaggio sulle città immaginarie sono in tutto e per tutto figlie del Novecento, e che abbiamo messo a punto le loro idee intorno agli anni ’60 del secolo scorso, il decennio della rinascita occidentale.

Come Giambattista Piranesi, anche Soleri vide solo una minima parte della propria opera portata a compimento. E come Walt Disney, anch’egli sognava una città-comunità costruita in breve tempo che rappresentasse un modello di città per il futuro, senza più macchine inquinanti e con un alto risparmio di energia, dove la vita e il lavoro sarebbero diventati una cosa sola. Una città che potesse migliorare la qualità della vita instaurando un rapporto stretto con l’ambiente naturale e combinando, con armonia appunto, la materia artificiale e quella naturale.

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Torinese, allievo di Frank Lloyd Wright, Soleri vive e insegna negli Stati Uniti, precisamente a Scottsdale in Arizona, dove crea uno spazio creativo per teorizzare un nuovo modello di vita sociale sostenibile dall’umanità contemporanea. 

In nature, as an organism evolves it increases in complexity and it also becomes a more compact or miniaturized system. Similarly a city should function as a living system. Arcology, architecture and ecology as one integral process, is capable of demonstrating positive response to the many problems of urban civilization, population, pollution, energy and natural resource depletion, food scarcity and quality of life. Arcology recognizes the necessity of the radical reorganization of the sprawling urban landscape into dense, integrated, three-dimensional cities in order to support the complex activities that sustain human culture. The city is the necessary instrument for the evolution of humankind.” (Dal sito arcosanti.org)

Il progetto di Soleri era veramente maestoso, dai suoi progetti possiamo capire le proporzioni del suo intervento sull’architettura contemporanea. L’arcologia, dice l’architetto italiano, riconosce la necessità di una radicale riorganizzazione della dispersione urbana in città dense, integrate e a tre dimensioni, per supportare le attività complesse su cui si basa la cultura umana. La città è lo strumento necessario per l’evoluzione del genere umano.

Soleri pensava, con spirito decisamente preveggente, che il mondo avesse bisogno di avvicinarsi, non di allontanarsi rinchiudendosi sempre più in dimensioni personali. Per questo la sua idea di città prevedeva un modello architettonico studiato per permettere agli abitanti di incontrarsi. Ma l’idea dell’arcologia avrebbe dovuto anche risolvere i problemi di sovrappopolazione e disordine esistenti nelle città moderne. Si pensava che la soluzione al problema potesse arrivare dalla costruzione in verticale delle città anziché in orizzontale, dal momento che le grandi città del futuro a causa del loro rapido sviluppo avrebbero dovuto affrontare prima o poi la mancanza di spazio sulla terra e di conseguenza una dispersione della popolazione verso periferie sempre più estreme e incontrollabili. Soleri va oltre questa idea proponendo di comprimere e compattare le strutture urbane in una sorta di tridimensionalismo, modificando così l’espansione urbana bidimensionale. Le teorie sullo sviluppo in verticale delle città sono state prese a modello da molta letteratura fantascientica, dove nella raffigurazione dei paesaggi urbani la progettazione urbanistica spesso si sviluppa verso l’alto, in strutture talvolta di dimensioni epiche. Tra i tanti film e libri si possono citare “Il quinto elemento” di Luc Besson o “Neuromante” di William Gibson, per esempio. Di solito la vita delle persone in queste storie è sempre cupa e degradata, perché gli edifici colossali (la migliore rappresentazione la si può trovare in “Blade Runner” di Ridley Scott, tanto che il film è studiato nelle facoltà di architettura) si trasformano in ciclopici contenitori di esseri umani mentre la città al suolo, invisibile perché coperta dai fumi dell’inquinamento, è lasciata ai reietti, ai criminali, ai poveri. È interessante come la metafora della società sia rappresentata da grosse città stato, infatti da alcuni decenni a questa parte i centri pulsanti delle nazioni si sono spostati nelle città, a discapito delle provincie che sono abbandonate a se stesse e per questo contano sempre meno. Rimanendo sempre sul tema e spostandosi nell’ambito fumettistico, il consiglio è di leggere “Judge Dredd”; le Megacities (anche qui per approfondire) immaginate da John Wagner e Carlos Ezquerra sono alcuni dei migliori esempi di fantascienza “architettonica” su carta, così come la Roma futuristica e inquietante di “Ranxerox” di Tamburini e Liberatore. Ma questa per l’appunto è la visione degli autori di fantascienza, Soleri voleva invece evitare che una città potesse diventare un agglomerato chiuso e violento, anzi come già detto la sua città avrebbe dovuto favorire le relazioni sociali e il lavoro in comunità.

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Tornando all’opera di Soleri, il suo lavoro più grande fu l’ideazione della città di Arcosanti, progettata secondo i modelli dell’arcologia così come la intendeva lui. Ma partiamo dall’inizio, ovvero dal suo maestro, Frank Lloyd Wright.

Wright pubblicò negli anni trenta il volume “An Organic Architecture”, in cui descriveva la propria idea di città utopica, chiamata “Broadacre City”, la “città acrovasto”. Secondo Wright la progettazione architettonica deve creare un’armonia tra l’uomo e la natura, il nuovo sistema dovrà essere un equilibrio tra i due ambienti e fare in modo che gli elementi artificiali di tutti i tipi possano integrarsi con quelli naturali. A guidare questa società deve essere la consapevolezza da parte di chi ci abita di essere parte di un unico interconnesso organismo. Per fare in modo che ciò sia possibile, la sensazione di appartenenza deve essere sviluppata anche tramite uno spazio architettonico studiato per la vita di tutti i giorni, quella delle abitudini e delle piccole cose; il progetto della città per non diventare astratto deve tenere conto di tutti i particolari della vita di una persona di questa epoca, anche di quelli più piccoli, interessando vari aspetti. Soleri lo sapeva e aveva difatti sottolineato l’importanza dei luoghi di ritrovo e di svago. Comunque, ad oggi, la famosa casa sulla cascata di Wright del 1936 è l’esempio più concreto di architettura organica, per quanto rimanga appunto una costruzione “astratta”, quasi un monumento. Soleri invece desiderava che le sue costruzioni fossero abitabili da chiunque e che diventassero parte della normale vita quotidiana. La soluzione di Wright poi non è esente da problemi. Infatti, non trova una soluzione per l’effettiva rapida crescita della popolazione, ritorniamo qui al problema già posto in precedenza. Soleri dunque riprende l’idea dell’architetto americano cercando di risolverne i nodi, focalizzandosi sullo spreco e la duplicazione delle risorse e sul risanamento del territorio. La sua è una città ideale studiata per armonizzarsi con l’uomo. Come la natura, la città deve essere organica, deve cioè fondarsi sugli stessi principi di funzionamento degli organismi biologici, ricalcandone la coerenza interna e la capacità di adattamento armonioso all’ambiente, così come succede in natura per le grandi comunità non umane, come quella delle api o delle formiche. L’arcologia per Soleri deve essere semplice e non deve sprecare nulla, deve sfruttare le risorse sapendo di poterle riutilizzare, quindi allontanandosi dal consumismo e tornando a un principio di vita tradizionale. La “miniaturizzazione”, ovvero comprimere più ambienti in uno solo (la tridimensionalità, ma penso anche alla forma dell’ipercubo, con quattro o più dimensioni), determinerà una città concentrata, dove le persone possono più facilmente trovarsi e spostarsi senza dover percorrere grandissime distanze. Un altro punto cardine dell’arcologia infatti è evitare la necessità dell’automobile, motivo di consumo inutile e di isolamento. Per non gravare ulteriormente su zone già fortemente urbanizzate, Soleri propone anche di sfruttare grossi spazi pressoché illimitati come deserti, isole galleggianti sugli oceani, canyon.

Seguendo questi principi, nel 1970 Soleri diede il via alla costruzione di Arcosanti, la città organica, “an Urban Solid of superdense and human vitality”.

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Faccio una breve digressione, gli appassionati di cinema conoscono già il lavoro di Soleri, direttamente o indirettamente, sua infatti è la casa che esplode nel mitico finale di “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni, la casa peraltro fu costruita seguendo il modello di quella presente nel film “Intrigo internazionale” di Alfred Hitchcock. Il misto di musica (erano i Pink Floyd), regia (la scena fu ripresa da 17 macchine da presa) e sottotesti impliciti (esplosione dei beni di consumo) in quei pochi minuti rende quel finale un momento artistico che vive di vita propria. Non fu l’unico film ad avvalersi dell’opera di Soleri però, nel 1988 il regista Paul Mayersberg, già sceneggiatore de “L’uomo che cadde sulla Terra” e “Furyo”, entrambi con David Bowie, girò il suo film “Nightfall” ad Arcosanti. Una piccola chicca: questa pellicola è tratta dal racconto “Notturno” (Nightfall, 1941) di Isaac Asimov, lo spunto veniva da una frase del filosofo americano Ralph Waldo Emerson, che si chiedeva “Se le stelle apparissero una sola notte ogni mille anni, come gli uomini potrebbero credere e adorare, e serbare per molte generazioni la rimembranza della città di Dio?”. Insomma, Paolo Soleri non è proprio sconosciuto alla fantascienza. Ultimamente il regista Francis Ford Coppola si era rivolta alla sua consulenza per una sceneggiatura molto ambiziosa, tipicamente “coppoliana”, dal titolo “Megalopolis”, la storia di un architetto che vuole ricostruire New York. Il film è stato accantonato dal regista alcuni anni fa, ma forse ora, dopo alcuni piccoli film indipendenti, potrebbe essere intenzionato a riprenderlo. Conoscendo la tenacia e la follia del regista, potrebbe anche riuscirci. Io lo spero, almeno.

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Si diceva prima che solo una parte dei suoi tantissimi progetti sono stati realizzati.

I suoi progetti urbanistici più importanti sono stati:

Mesa City (1959), con planimetria biomorfa.

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Novanoah, Asteromo, Arcollective, agglomerati in cui l’altissima concentrazione urbana delle megastrutture verrebbe bilanciata dalle vaste aree territoriali destinate all’agricoltura e al godimento della natura, dalla riduzione al minimo degli sprechi di tempo, di spazio, di trasporti e di inquinamento, il tutto a vantaggio di un più organico, umano ed ecologico sfruttamento dell’ambiente. (Dalla fonte Wikipedia)

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Infine la città di Arcosanti, che però esiste solo in parte.

“Sarei diventato matto se avessi saputo che ci avrebbero messo così tanto”, disse tre anni fa Soleri all’Arizona Republic.

“Arcosanti is an urban laboratory focused on innovative design, community, and environmental accountability. Our goal is to actively pursue lean alternatives to urban sprawl based on Paolo Soleri’s theory of compact city design, Arcology (architecture + ecology). Built by over 7,000 volunteers since the commencement of the project in 1970, Arcosanti provides various mixed-use buildings and public spaces where people live, work, visit, and participate in educational and cultural programs.” (arcosanti.org)

La costruzione iniziò nel 1970 a circa 100 km a nord di Phoenix, in Arizona, ma il progetto risale al 1965, quando Soleri inizia a cercare i fondi per comprare 60 acri di terreno e ottenere la concessione di altri 800 acri per una eventuale estensione. La prima comunità infatti avrebbe dovuto ospitare almeno cinquemila persone. Da allora vi hanno lavorato circa settemila studenti, ma è stata completata soltanto al 3%. A tutt’oggi esistono 14 edifici e vi abitano circa 90 persone.

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Dalla fonte Wikipedia: “Il progetto dell’abitato, impostato come «un complesso compatto dove vita, lavoro e gioco sono tutti sotto il medesimo tetto», è concettualmente simile in generale agli insediamenti popolari, come ad alcune cittadine mediterranee, sebbene abbia una maggior complessità funzionale e strutturale. Qualità che lasciano percepire il senso dell’ambiente arcologia. A qualche decennio dall’inizio della costruzione Soleri è cauto nel tracciare un bilancio del suo lavoro: «Riconoscere l’importanza delle implicazioni e delle relazioni ambientali è stato un notevole primo passo. Abbiamo quindi dovuto constatare che la vita è più complessa ed ardua di quanto ci piacerebbe credere»

«Il concetto di Arcologia racchiude in sé l’idea della necessità di un cambiamento di coscienza e di atteggiamento – la percezione del fatto che il nostro attuale modo di vita è probabilmente non sostenibile e forse persino non etico (…) Qui, dove vita e lavoro sono una sola cosa, non puoi isolare l’uno dall’altro. In molti aspetti, le persone che stanno lavorando qui sono eroi».”

Allo stesso tempo Soleri parlava dell’impossibilità di agire senza finanziamenti: “I was driven by emotions. I never sat down and said, ‘What am I going to do now?’ I was too busy. But, I ask, is it possible to build a utopia without money?”

Paolo Soleri

Come Disney e O’Neill, anche Soleri fa parte di quella schiera di grandissimi inventori che sognavano ciò che ancora non c’era, possibilmente per migliorare le possibilità dell’uomo, abbattere barriere, andare oltre i limiti visibili, migliorare le nostre capacità e di conseguenza le nostre esistenze, ma sempre tenendo i piedi ben piantati per terra. Con Disney condivideva l’idea di una nuova città ideale, che fosse un luogo di rinascita per l’uomo, come O’Neill invece considerava lo spazio un luogo alternativo all’ecosistema terrestre ormai a rischio, e aveva addirittura progettato alcuni habitat modulari con componenti assemblabili per stabilire insediamenti umani su asteroidi o per creare stazioni fluttuanti. La serietà e l’importanza dei loro progetti, con tutti i loro limiti, dovuti a loro o ai tempi in cui vivevano (e viviamo), mossi perché no anche da gloria personale, mi hanno invogliato ad approfondire queste questioni, perché le spinte che ci muovono sono dovute principalmente all’ambiente in cui viviamo. Come disse Soleri, “I am a prisoner of my own age”. Paolo Soleri è morto il 9 aprile 2013 a Cosanti, accanto al suo sogno.

Città immaginarie – Parte seconda

Epcot.

Il nome vi dice qualcosa?

Probabilmente a molti non dice nulla, eppure nella mente del suo inventore sarebbe dovuta essere la prima delle città del futuro in cui tutti avremmo vissuto. Il suo creatore si chiamava Walt Disney ed è conosciuto per essere stato un uomo pieno di idee vincenti ma a volte anche diaboliche. Il padre di Topolino e compagni, un uomo geniale senza dubbio, nella sua bontà di cartapesta anni ’50 a volte mi ricorda alcuni personaggi dei romanzi di Philip K. Dick. Premetto che nella mia formazione culturale Disney è venuto prima di Philip Dick, con i personaggi del suo fumetto ho passato un’infanzia meravigliosa (ma è merito soprattutto degli imbattibili Maestri italiani) e se ho sviluppato una buona predisposizione per la narrazione delle storie lo devo a quelle pagine in cui la fantasia regnava su vette altissime, non escludo anzi che sia partito tutto da lì, forse anche prima del mio amore per il Cinema. Tutt’ora rivedere zio Paperone (in assoluto il mio preferito), Paperino, Archimede, la Banda Bassotti, Amelia, Macchia Nera, o sentire la voce di Pippo nei cartoni animati a lui dedicati, mi fa bene, mi fa sentire in compagnia di amici, così come mi sentivo da piccolo. Certo, ripeto, le storie che leggevo erano tutte italiane, al 100%.

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Però ciò non toglie che a volte il ricordo di questo signore sia circondato da un alone inquietante. Dicevo prima di Philip Dick. Non so se Disney fosse davvero nella mente di Dick quando questi scriveva, ma è fuori di dubbio che egli rappresenti molto bene lo spirito americano che lo scrittore di Ubik viveva come una distorsione allucinante, pressato da un culto della libertà individuale quasi assoluto. L’America intesa come unica cultura destinata a comandare il mondo può avere in Disney un portavoce affidabile. Topolino dittatore? Non proprio, perché quando Walt progettava Epcot sicuramente lo faceva in buona fede, convinto davvero che lo stile di vita U.S.A. fosse il migliore che si potesse avere e che il cittadino-consumatore, quello sorridente delle pubblicità degli anni ’50, fosse l’unico modello possibile per l’uomo americano che aveva appena distrutto i regimi totalitari degli europei e dei giapponesi. Anche a suon di bombe atomiche, come sappiamo. In un certo senso nessuno imponeva nulla, al contrario del regime sovietico, ma allo stesso tempo quello era ciò che era dato trovare, e che bisognava amare, prendere o lasciare (il Paese, possibilmente).

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La fede nel suo Paese portò il creatore dell’universo di Topolino a scelte spesso discutibili nella sua vita, si parla di una simpatia per il nazismo prima della guerra e di una gestione dispotica della sua azienda. Disney non approvava i sindacati né che qualcuno potesse avere da ridire sul suo modo di condurre i lavori. Anzi, durante il periodo della caccia ai simpatizzanti socialisti voluta dal tristemente famoso senatore McCarthy, testimoniò contro alcuni dei suoi stessi colleghi davanti la commissione per le attività anti-americane. Fu la campagna che portò tantissime persone, probabilmente tanti che amavano il proprio paese, nella rovina assoluta. Certo, tutto va contestualizzato, ora noi abbiamo una visione ampia e chiara su un periodo storico definitivamente chiuso e in cui le paure di una guerra tra due blocchi totalmente contrapposti che avrebbero annientato l’essere umano erano più che concrete, ma rimane il fatto che le facce di Walt Disney ci danno ancora oggi un senso di contrasto e confusione. Quale di queste è la più sincera? Il genio creativo, l’inventore, l’artista o il despota? Probabilmente entrambi, per questo dico che Walt Disney e gli Stati Uniti sono una cosa sola. D’altronde chi ha detto che Topolino e soci dell’epoca fossero in contrasto con l’odio sincero verso un nemico?

Ma non divaghiamo, torniamo a Epcot. Certo una premessa andava fatta, altrimenti è difficile capire l’idea di questa città, progettata e fortemente voluta da Disney nell’ultimo periodo della sua vita, intorno alla metà degli anni ’60 (lui è morto nel 1966). Il progetto gli stava così a cuore che anche nell’agonia finale nel suo letto d’ospedale, dopo inutili e dolorosissime operazioni ai polmoni malati, pensava a Epcot, la città degli americani.

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Epcot sta per Experimental Prototype COmmunity of Tomorrow. Già, la comunità del domani. Nel bene e nel male loro sono sempre stati proiettati verso il futuro. Lo sguardo era tutto diretto lì, verso quell’infinito nulla da colmare, uno spazio fatto di tempo ed esseri umani, senza fine. L’obiettivo è riempire il futuro, qualcosa che è sempre uno spazio vuoto, un “non luogo” da modellare prima degli altri, possibilmente anche facendo un po’ di quattrini. Come Gerard O’Neill (ma su piani differenti), anche la visione di Disney era quella dei vecchi pionieri, andare avanti e scoprire, mentre si scopre però si piazza anche una bella bandiera a stelle e strisce. È così che si vince, se non è chiaro; non guardando dietro, ma avanti. Insomma ragazzi, qui ci siamo venuti prima noi. Semplice. We are soo sorry, but… L’idea è quella di colonizzare, di offrire una soluzione prima degli altri, e chi arriva primo di solito influenza tutto il resto, semplicemente perché non c’è alternativa e quindi, e qui torniamo al discorso di poco fa, prendere o lasciare. La visione di Disney era certamente meno filantropica e più capitalista.

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L’obiettivo di Walt Disney era di creare inizialmente uno comunità lavorativa per alcune decine di migliaia di persone, in cui le grandi corporation statunitensi avrebbero mostrato la vita nella città del futuro con le nuove tecnologie americane e un nuovo modello di organizzazione sociale. Una vera utopia dove a regnare sarebbero state le leggi della grande compagnia Disney, nessuno doveva essere proprietario della propria casa e nessuno avrebbe avuto il diritto di votare. La Disney avrebbe scelto i rappresentanti e avrebbe comandato la polizia locale, per stabilire senza vincoli i divieti e i permessi della città del futuro. Le regole d’altronde sarebbero state ben poche ma molto chiare: cittadini come clienti e dipendenti, tutti impiegati, niente pensionati e niente disoccupati. Messe così, le leggi del consumismo avrebbero lasciato ben poco all’iniziativa del cittadino, proprio in una paese dalla forte caratterizzazione individualista. Anzi, il cittadino, o sarebbe meglio dire l’essere umano, sarebbe diventato una pedina, un giocattolo molto simile ai pupazzi delle varie attrazioni del parco giochi.

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Il passo, in pochi anni, era stato breve; la mente di Disney infatti lavorava instancabile e a una velocità impressionante. Nel 1955 era stato aperto il parco giochi più famoso del mondo, Disneyland, e la gente faceva la fila per vedere quella paccottiglia e girare nelle strade replica di quelle vere del parco-città. Divertendosi e soprattutto spendendo. Dunque, perché non proporlo anche come modello sociale, di vita e di lavoro? Se questa è prosperità, e i fatti danno ragione, perché non usarlo per creare altra prosperità, inglobando anche altri settori della vita quotidiana e le scelte amministrative, politiche, culturali e sociali? In pratica, creare una nazione. O un prototipo, perlomeno.

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Disney era un accentratore, un padre padrone della sua opera e di quella delle persone che per lui lavoravano. Non parliamo solo degli esecutori, ma anche dei geni creativi che con le loro idee hanno contribuito a ingrandire l’impero Disney, artisti come Carl Barks furono totalmente oscurati dal capo. Il capo non era una persona semplice, un giocherellone naïve, non era il buono padre o nonno sorridente che gioca con i suoi pupazzi nelle pubblicità di quegli anni (e quanto si potrebbe scrivere sulle pubblicità degli anni ’50 e ’60… sul come hanno radicalmente cambiato il mondo, ben più di una qualsiasi rivoluzione vecchio stile). All’opposto era una persona che controllava e studiava ogni minimo particolare, affinché nulla potesse sfuggire al suo volere e nulla potesse uscire dalla “fabbrica” senza una sua approvazione e firma. Niente era lasciato al caso: l’instancabile macchina dell’intrattenimento non poteva essere condotta senza un polso di ferro e una cura maniacale dei suoi ingranaggi. Macinare soldi non è una passeggiata. Il capitalismo non è un pranzo di gala. E Disney sapeva farlo nel modo più redditizio possibile. La coordinazione dietro le quinte era complessa e organizzata come quella dell’esercito prussiano. Centinaia di dipendenti e un gruppo di società controllate dalla Disney stessa si occupavano come una comunità di formiche di tutto: dalla creazione delle attrazioni dei singoli parchi alla manutenzione delle strade e dei trasporti ai servizi di polizia. Solo così si sarebbe raggiunta l’autosufficienza, una prova generale per Epcot. Disney sapeva che nel momento in cui non devi dipendere da nessuno hai il potere assoluto. Anzi, se fai le cose che agli altri servono, non dovrai nemmeno combattere. Saranno gli altri a venire con il cappello in mano.

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Disney era anche un sognatore, e questo è un aspetto assolutamente fondamentale. Attenzione, non stiamo parlando di Stalin, una persona che tirava le somme delle milioni di persone che avrebbe ucciso in un tot di anni per far quadrare i conti o che aveva una mente talmente squadrata e arretrata da odiare qualsiasi tipo di espressione artistica che non fosse utile al potere. Qui parliamo di un uomo che sognava il futuro, certamente in un misto di futurismo e tradizionalismo, di vecchi valori della sua società e di progresso tecnologico e ordine sociale. Tutto però senza mai far calare le luci sullo spettacolo, un principio basilare, perché Disney era anche artigiano: so come farvi divertire, gente, sono il migliore, io lo so, voi lo sapete, nessuno rimarrà deluso, dal momento che un biglietto è stato pagato. Questa, in breve, la formula: io do quello che mi chiedete, ma se offro di più voi comprate. Disney, con il suo impero di personaggi di fantasia e parco giochi, era nell’America di metà Novecento assolutamente credibile.

Ecco, lo spettacolo appunto. The Truman Show. La vita come spettacolo in un mondo costruito ad hoc. Philip Dick a volte ritorna.

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Epcot sarebbe divenuta un laboratorio per il futuro. Le migliori compagnie americane vi avrebbero preso parte per fornire il necessario e anche di più, vale a dire creare quello che ancora non c’è. La cosa più importante è farlo prima degli altri, lasciare il resto del mondo indietro, un eterno secondo che imita pateticamente il gigante americano. Il parco a tema è anche un luogo dove mostrare, “to show”, lo show, lo spettacolo che non si ferma mai. Epcot e Disneyland dovevano essere enormi esposizioni universali davanti al mondo, dove si espone e si vende di tutto, dalle nuove tecnologie a nuovi stili di vita, si sperimentano prototipi di prodotti del domani. Il patto però era che a produrli, firmarli e venderli fosse uno solo.

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In un certo senso l’idea di città di Disney è stata sviluppata meglio nei principi del Neourbanesimo, una forma di architettura nata negli Stati Uniti negli anni ’80 che si basa sull’ambientalismo, la sostenibilità e la bioarchitettura. Gli architetti neourbanisti ragionano seguendo il filo di una società fortemente tecnologica ma in veloce mutamento, cercando di imparare dai problemi delle vecchie città e dando un senso al pensiero che anche in un grosso centro urbano si possa e si debba condurre uno stile di vita sano e il meno stressante possibile.

L’idea originale di Epcot è spiegata in questi due video realizzati due mesi prima della morte del fondatore, sono anche gli ultimi video in cui appare Disney. Epcot 1 – Epcot 2

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Una delle aree neourbaniste oggi esistenti, Val d’Europe, situata vicino Parigi, è stata progettata e lanciata nel 1997 proprio grazie alla cooperazione tra la Euro Disney E.C.A. e le autorità francesi. Riporto da Wikipedia: << Fa parte del più grande progetto denominato Euro Disney che ebbe inizio nel 1987, ma che fu posticipato a causa di alcuni problemi finanziari. Ora Val d’Europe è un’area residenziale di alto livello con un centro commerciale di 75.000 metri quadrati, un’area commerciale dedicata all’alta moda (chiamata La Vallée) ed Aquarium Sea Life, un grande acquario dove i visitatori possono fare un viaggio a partire dalla Senna fino a raggiungere le più grandi profondità dell’Atlantico e spingersi poi fino ai Caraibi.>> La stessa Epcot, secondo i concetti presentati nel film, si sarebbe basata su un innovativo ma semplice design: sulla base di un concetto simile al layout di Disneyland Paris, la città si sarebbe irradiata come una ruota da un nucleo centrale. Sviluppandosi, l’area urbana si sarebbe aperta a ventaglio, evitando zone periferiche diverse dal centro, la parte “antica” di Epcot, il suo nucleo originario.

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Disney ci teneva davvero che le sue idee influenzassero quelli che sarebbero venuti dopo, e in questo almeno ci è riuscito. Fortunatamente ne sono stati presi gli aspetti migliori. A proposito di trasporti, comunque, Disney si occupava anche di questi, e proprio come in certe immagini vintage del futuro dove tanti omini con il volto squadrato alla Dick Tracy e vestiti con completi grigi e con cappelli Fedora prendono metro futuristiche per recarsi a lavoro, anche in Epcot ci sarebbe stato un trasporto efficientissimo basato su una monorotaia e trenini da non più di quattro carrozze. Prendo una piccola libertà e divago: la monorotaia mi fa pensare sempre a questo ed è una cosa che vorrei anche io nella mia città. (“E per quanto riguarda noi babbalocchi?”)

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La monorotaia avrebbe rivestito come un cordone la città, divisa in un centro, ossia l’area shopping, e una periferia residenziale dove abitare (immagino con casette a schiera, viali e giardini). Le auto sarebbero state nascoste alla vista perché brutte e inquinanti, decisamente poco in linea con lo stile ordinato di Epcot. Tra l’altro pare che Disney fosse un appassionato di treni, ma non di auto, per via del lavoro paterno. In questa scelta tornava una sua antica passione infantile.

Comunque, il progetto di questa città fu un lavoro preso in seria considerazione dalla compagnia-corporation che gestiva più soldi di uno stato. Nei romanzi di fantascienza cyberpunk (Gibson, Sterling) spesso le grosse corporazioni si sostituiscono ai governi e modellano la vita delle persone secondo il ramo di cui si occupano e non di rado sono anche in guerra fra loro. La corporazione potente in effetti può da sola gestire piani che un governo non riuscirebbe mai a realizzare, per tantissimi motivi. Epcot in un certo senso esiste. Si trova a Orlando, in Florida, in un appezzamento di terra grande due volte l’isola di Manhattan. Lì nel 1971 il fratello di Walt, Roy Disney, volle costruire il Walt Disney World Resort, prendendo spunto da alcuni aspetti di Epcot. Presso il resort esiste anche un parco a tema chiamato Epcot, inaugurato nel 1982. 

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Il modello architettonico comunque è bislacco e disordinato, fatto di palazzi, castelli, hotel, attrazioni da luna park, un misto di borghi medioevali, casette parigine, palazzi di stile veneziano, come a Las Vegas, poi ancora strutture futuristiche e visioni architettoniche a metà strada tra il romanticismo ottocentesco europeo (il famoso castello di Disneyland d’altra parte è la copia del castello delle favole del Principe Ludwig a Monaco, se non ci siete mai stati andate di corsa), le architetture di Peter Behrens e Lloyd Wright e quelle che hanno dato forma alle città americane nel primo Novecento. Negli anni Novanta la Disney Corporation fece costruire un paese chiamato “Celebration”. È un progetto diverso da quello di Walt Disney, ricorda la Burbank noiosa e allucinata rivisitata dalle fantasie di Tim Burton in “Edward Mani di forbice”. In pratica, rispetto all’originale, Celebration ha mantenuto solo l’ossessione per il controllo e la parte spaventosa che è contenuta in tutti i sogni, anche in quelli più belli.

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La Epcot immaginata da Disney dunque non esiste, ma in quanto a incasellamento forzato e ingabbiamento dentro stili e mode decise da altri, per il vantaggio di pochi, oggi stiamo messi benissimo. Comunque questo non toglie che io su queste utopie retrofuturiste mi ci perdo e sotto sotto le vorrei vedere realizzate, anche perché utopia retrofuturista significa Avventura! Azione! Pistole a raggivattelapesca! Inseguimenti con stupidi poliziotti con buffi cappelli e macchine lentissime! Dai. Almeno in un film. Un misto tra Il dormiglione di Woody Allen e Paul Verhoeven. Hollywood, anzi… Impero Disney, fallo. Prendi i miei soldi!

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Ps: questa secondo me è la colonna sonora migliore.

Città immaginarie – Prima parte

Inauguro questo blog con un tema che mi affascina da sempre: le città immaginarie. O meglio dovrei dire le città ideali, quelle che da qualche parte, nella mente degli autori, architetti, scrittori, registi, fumettisti, visionari di ogni tipo, sono esistite e sono state popolate. Mi piace immaginare un luogo sulla Terra o su un altro pianeta dove si radunino tutte le città che non sono mai esistite, forse per credere anche in una popolazione che non è mai esistita.

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Alcune di esse però sono state prese in considerazione realmente e ne esistono i progetti, di queste andremo a parlare. Cercherò di dividere questo articolo in tre parti da pubblicare a puntate, dedicando la prima parte ai progetti di colonizzazione dello spazio di Gerard K. O’Neill, la seconda alla città stato ipotizzata nientemeno che da Walt Disney e la terza alla città ideale di Paolo Soleri, architetto italiano. Voi direte, cosa c’entrano un fisico americano visionario, il papà di Topolino e l’Italia? Beh, pare che in qualche cosa abbiano un filo comune.

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Partiamo subito: il primo approfondimento riguarda lo studio fatto dalla NASA negli anni ’70 per progettare colonie spaziali in vista di una futura conquista dello spazio e conclusosi negli anni ’80 con il progressivo abbandono delle missioni con equipaggio nello spazio (a parte la missione Stazione Spaziale Internazionale che durerà fino al 2016). Nel 1969 Gerard O’Neill, professore di fisica alla Princeton University, fece una richiesta che agli studenti di quell’anno non dovette sembrare poi così bizzarra come potrebbe apparirci oggi, chiese di aiutarlo a progettare titanici centri abitativi nello spazio, delle città colonie auto-sussistenti orbitanti fuori dalla sfera terrestre. Il 20 luglio del ’69 un certo Armstrong aveva piantato i piedi sul suolo lunare (con buona pace dei teorici del complotto lunare), immagino quindi un certo ottimismo e sicuramente non meno euforia intorno ai progetti di conquista dello spazio profondo. Il professore spiazzò tutti chiedendo semplicemente “siete certi che la superficie di un pianeta sia davvero il posto migliore per una civiltà tecnologica in espansione?”. La ricerca dei suoi studenti si orientò verso il no.

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Il risultato dei suoi sforzi fu pubblicato nel settembre del 1974 su Physics Today, lo riprendo dal sito della National Space Society (si può leggere qui): il fisico affermava che la conquista dello spazio è possibile per l’umanità di questo periodo storico; nell’arco di un centinaio di anni, si legge, si potrebbe impiantare una nuova attività industriale al di fuori della sfera terrestre (“if work is begun soon, nearly all our industrial activity could be moved away from Earth’s fragile biosphere within less than a century from now”), ma soprattutto “the technical imperatives of this kind of migration of people and industry into space are likely to encourage self-sufficiency, small-scale governmental units, cultural diversity and a high degree of independence”, afferma insomma che un tipo di missione come questa avrebbe favorito l’autosufficienza, la formazione di unità governative su piccola scala (molto più efficienti delle enormi macchine centrali di potere di centri urbani sempre più immensi), la diversità culturale e un elevato grado di indipendenza. Questo secondo me rappresenta il punto più importante della sua visione, perché nella visione di O’Neill progresso scientifico in ambito spaziale e trasformazione positiva della società avanzano di pari passo. Purtroppo da allora le cose non sono andate esattamente come molti immaginavano, anche se il progresso in campo spaziale nonostante i tagli è rimasto molto attivo, missioni di enorme portata storica e scientifica come la missione Curiosity su Marte potrebbero aprire la strada a una nuova esplorazione, così com’è stato più di cinquanta anni fa per la Luna, ma stavolta verso Marte. Nella speranza che un giorno non molto lontano possano riprendere le missioni con equipaggio verso altri pianeti, primo fra tutti il pianeta rosso, e chissà che così facendo non si arrivi anche a viaggiare verso altre frontiere, verso la wilderness infinita che si estende al di fuori della nostra Terra, e quindi alla prima vera colonizzazione di una nuova casa. Per ora possiamo solo sognare, ma è vero anche che proprio perseguendo questi sogni siamo arrivati a vette impensabili.

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Ma a proposito di sogni, è importante sottolineare come O’Neill specifichi che non sta parlando di visioni allucinate, il suo obiettivo è lanciare una proposta concreta, anche se non di rapida attualizzazione, per costruire uno spazio vitale di alta qualità al di fuori della biosfera per una popolazione mondiale che aumenta a dismisura, che non riesce a imporsi fonti di energia pulita e che consuma a ritmi spaventosi le risorse del pianeta. Sottolinea infatti che il progetto è realizzabile con le conoscenze e con le risorse che già possediamo. Bisogna infatti pensare a ciò che ancora è da inventare e da scoprire come a uno stimolo e non come a un freno, fa parte dell’empirismo su cui si è mossa la scienza moderna, d’altronde anche per provare la meccanica quantistica serve un’esperienza che provi che possono esistere leggi fisiche contro-intuitive. A proposito dell’importanza del progresso scientifico in campo spaziale, segnalo la lettera che il direttore della NASA scrisse nel 1970 a chi contestava le spese e l’utilità della sua agenzia, la lettera è un vero gioiello e ne consiglio la lettura qui.

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Ecco, l’idea di O’Neill può essere vista sotto l’ottica di questa lettera: pensare allo spazio per risolvere i problemi della vita quotidiana non è folle. La chiave, continua lo scienziato, è trattare la sconfinata regione oltre la Terra non come un vuoto, ma come un mezzo di coltura, ricco di materia e di energia. Per vivere normalmente, le persone hanno bisogno di energia, aria, acqua, terra e gravità. Nello spazio, l’energia solare è affidabile, la Luna in grado di fornire i materiali necessari (oltre a essere una piattaforma di sosta e rifornimento), e l’accelerazione rotazionale può sostituire la gravità terrestre. D’altronde per garantire la vita umana nello spazio ciò che è veramente essenziale è la biodiversità, ovvero la presenza nello stesso habitat di forme viventi geneticamente differenti, dai microrganismi ai vegetali, solo così si potrà avviare un processo di terraformazione, ovvero il processo artificiale di adattamento di un luogo (naturale o artificiale) alle condizioni di vita umane, che si ottiene intervenendo chimicamente nell’atmosfera in modo da ottenere la formazione di un ecosistema. Recentemente il tema è stato anche oggetto di studio dell’antropologo John Moore, che ha trattato il modello di espansione nello spazio in colonie in relazione alla crescita demografica terrestre in un saggio pubblicato dalla NASA, Interstellar Travel and Multi-Generational Space Ships. Chi volesse approfondire i temi della ricerca sulla colonizzazione può arricchirsi con The High Frontier: Human Colonies in Space,  il testo in cui O’Neill descrive i particolari del suo ambizioso progetto. Fu pubblicato nel 1976, all’apice della “fama” dello scienziato, e fu tradotto anche in italiano (Colonie umane nello spazio, Arnoldo Mondadori Editore, 1979, pp. 334). La versione italiana probabilmente non è di facile reperibilità, quella originale invece è presente anche in versione digitale ed è disponibile su Amazon. 

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Un progetto simile è quello del Toro di Stanford, un altro progetto di colonia nello spazio sviluppato dalla NASA e dall’Università di Stanford nel 1975. Anch’esso prevedeva l’uso della forza centrifuga per simulare una gravità simile a quella terrestre e la residenza fissa di una comunità di circa diecimila persone. Ovviamente è presente in svariate storie fantascientifiche.

Ho scritto prima “fantascienza” per un motivo preciso, gli scrittori della fantascienza cosiddetta anticipatrice in realtà sapevano bene di cosa stavano parlando, non è un caso che molti di essi avessero enormi conoscenze scientifiche (Isaac Asimov) o che abbiano collaborato con gli enti spaziali (David Brin) o che abbiano scrupolosamente lavorato sui dettagli delle loro storie (Arthur C. Clarke). Cito Clarke non a caso. O’Neill aveva in effetti intrapreso degli esperimenti per constatare la fattibilità di una vita al di fuori della Terra. Riprendo dalla fonte Wikipedia: <<il progetto, conosciuto come Isola 3, consisteva di due cilindri in contro rotazione, lunghi 30 km e con un raggio di 3 km. La superficie interna di ogni cilindro era divisa in sei strisce di area uguale che correvano lungo la lunghezza del cilindro, tre erano “finestre”, tre erano “terra”. Inoltre un anello agricolo esterno del raggio di 15 km, come mostrato nella figura a destra, ruotava a velocità diverse per potervi praticare l’agricoltura. Il blocco industriale era localizzato nel centro (dietro il disco satellitare) per poter sfruttare la gravità ridotta nei processi produttivi. I cilindri ruotano per fornire una forza di gravità simulata dalla forza centrifuga sulla superficie interna…>>.

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Vi ricorda qualcosa?

Credo di si: uno dei più famosi (e più belli) romanzi di Arthur C. Clarke, un vero capolavoro di vera fantascienza, sto parlando di “Incontro con Rama”, dove si narra della scoperta e dell’esplorazione da parte di un gruppo di astronauti di un colossale cilindro costruito per replicare la vita e l’attività di un pianeta naturale. Il suo contributo, aggiungo, riguarda anche l’uso dell’orbita geostazionaria per i satelliti delle telecomunicazioni e la previsione, fatta nel ’74 (qui l’intervista), sui computer connessi in una rete globale e presenti in ogni casa negli anni Duemila. Un giorno bisognerà cambiare idea sulla Fantascienza e cominciare a considerarla per la sua essenza più profonda, un infinito stimolo per la parte migliore della nostra mente.

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Clarke e O’Neill purtroppo hanno lasciato questo mondo da qualche tempo, il primo nel 2008, il secondo nel 1992, stroncato da una leucemia a 65 anni. Poco prima di morire stava lavorando a un progetto per treni che avrebbero sfruttato l’energia elettromagnetica per garantire l’alta velocità. Come ultimo omaggio, le sue ceneri sono state spedite fuori dall’orbita terrestre il 21 aprile 1997. Le loro menti hanno fatto in tempo a lasciarci un contributo su cui c’è ancora tantissimo da riflettere, forse non tutte le idee erano perfette e forse non vedremo mai nel corso delle nostre vite le città spaziali di Gerard O’Neill, ma di certo queste persone ci hanno insegnato come portare avanti una prospettiva che appartenesse a tutti, una visione di respiro ampio che non fosse personale, ma che al contrario potesse coinvolgere tutta la nostra specie. Tutto questo questo semplicemente credendoci strenuamente, combattendo contro ostacoli che sembravano e sembrano insormontabili. 

Buon viaggio signor O’Neill, buon viaggio signor Clarke.